| "Safari"
        è una commedia di prosa di respiro internazionale, atta a promuovere la
        prevenzione la cura e la lotta contro il tumore mammario. Lo spettacolo
        debutterà a Roma, in prima nazionale al teatro Argentina, il 6 giugno
        2003 nell' ambito di una serata speciale offerta dalla stessa ANDOS per
        la solidarietà , per poi proseguire in Tournee nelle principali città
        italiane. Inoltre, lo spettacolo sarà rappresentato a Parigi alla
        Comedie des Champs Eliseè all'interno della rassegna promossa dall'Ente
        Teatrale Italiano "Theatre des italienès".
 Cinque italiani in vacanza. Due coppie: Marco e Isabella, giovani
        trentenni - lui bello e tormentato, lei ossessionata da pratiche new-age
        e meditazioni trascendentali - e Giorgio e Silvia, più maturi - lei un
        ex-stella cinematografica, ancora bella e desiderosa di sedurre, lui un
        "commenda" ricco e poco incline a divertimenti vacanzieri. Con
        loro, una giovane donna, Anita, dall'aria apparentemente autonoma ed
        efficiente. Una vacanza iniziata all'insegna di aspettative da depliant
        pubblicitario delle agenzie turistiche: "Regalatevi un'avventura!
        visitate in jeep la savana africana!". Ma piuttosto che un viaggio
        avventuroso, ma tutto sommato comodo e sicuro, i nostri si ritrovano
        impantanati nel bel mezzo della savana, abbandonati dal loro conducente
        che si è dileguato in cerca di soccorsi, e circondati dalle bestie
        feroci, non più oggetto di stupefatta ammirazione dal riparo della
        jeep, ma pericolo reale e tangibile. Mentre cala la notte, e sempre più
        incerta appare la conclusione, i nostri non smettono di chiacchierare,
        di scherzare, di comportarsi come se si trovassero all'interno di un
        salotto borghese. Nel corso di questa interminabile giornata, dal finale
        "aperto", le coppie si scompaginano e si ricreano in modi
        inaspettati, e i segreti di ognuno vengono impietosamente alla luce.
        Questa in sintesi la trama di Safari, di Antonia Brancati. Il testo
        utilizza tutte le strutture tipiche della commedia - battute e
        situazioni fulminanti, continui piccoli colpi di scena - per creare una
        sottile e profonda trama di relazioni tra i personaggi. Lentamente, man
        mano che la consapevolezza della pericolosità della situazione si fa
        strada nelle coscienze, i personaggi calano la maschera e rivelano i
        loro sentimenti più autentici e le verità più nascoste. Il finale è
        volutamente lasciato aperto, non sappiamo cosa succederà ai cinque.
        Riusciranno a sopravvivere? O verranno divorati dal leone, il cui
        ruggito percepiamo in lontananza sul finale? Il testo dà voce e corpo a
        temi universali con una scrittura apparentemente leggera, utilizzando al
        meglio gli stilemi di un certo teatro di matrice anche anglosassone -
        Ayckbourne, Frayne - e disegna personaggi del tutto verosimili nei loro
        risvolti psicologici. Dal punto di vista della messa in scena, appare
        chiaro che la savana è un po' - senza voler eccedere in indagine
        psicologica- un luogo metaforico "altro" nel quale si mettono
        in gioco le relazioni tra gli esseri umani. Senza la protezione del
        "salotto borghese", del quale all'inizio i cinque riproducono
        in modo ossessivo le convenzioni e i tic, le persone si rivelano per
        quello che realmente sono, in tutta la loro fragilità e nudità. I
        cinque aspettano, aspettano che improbabili soccorritori arrivino a
        salvarli. La scansione del tempo che passa, data dal caldo asfissiante,
        dal sole torrido dell'inizio, e dal freddo della notte, scandisce anche
        l'interminabile attesa dei personaggi, beckettianamente quotidiani.
        Riempiono il tempo con gesti superflui e ridicoli, nell'attesa di un
        qualcosa che, man mano che scorrono le ore, diventa sempre più
        misterioso. Il contrasto tra azioni apparentemente futili, leggere, e la
        natura, sempre meno benigna e sempre più minacciosa e ostile; tra una
        conversazione apparentemente sciocca, e il reale pericolo che incombe,
        rende il senso di inquietudine che attraversa in sottofondo il testo.
        Un'inquietudine che non è solo dettata dalle circostanze,
        oggettivamente scabrose, nelle quali il gruppo si trova, ma che sta come
        metafora di una più ampia inquietudine del vivere, spesso occultata nel
        quotidiano da atteggiamenti superficiali e vacui.
 
 Mi stavo proprio curando del mio "male incurabile" (una
        contraddizione in termini di cui ero in grado di cogliere tutta
        l'ironia) quando mi è capitato di leggere un articolo di giornale
        riguardante le cinque fasi - o stati d'animo - che vengono
        necessariamente attraversati da coloro a cui è stato diagnosticato un
        cancro: incredulità, certezza di farcela, rabbia, disperazione, e
        rassegnazione. All'epoca avevo già provato tutto - fino alla
        rassegnazione, per poi tornare caparbiamente alla posizione al punto
        due: ovvero alla certezza che ce l'avrei fatta. Quando, a qualche anno
        dal "male incurabile" mi accinsi o scrivere Safari, sulla base
        di un'avventura, totalmente autobiografica: dall'impantanamento nella
        savana, con la guida che si allontana a piedi con machete e carta
        igienica, all'avvistamento di una motoretta che in realtà è un leone,
        mi resi conto che quelle famose cinque fasi le avevo già provate di
        volata nella giornata di quell'avventura - e decisi che quei passaggi da
        uno stato d'animo all'altro sarebbero stati la struttura portante del
        mio lavoro di drammaturga. Un personaggio - Anita - rappresentava quella
        che avrei potuto essere se il cancro al seno mi avesse colpita senza che
        al mio fianco ci fosse un uomo amorevole e forte. Forse, nella
        condizione di Anita, e cioè con un uomo pavido e annichilito in fuga da
        me, anch'io avrei rifiutato qualsiasi ricostruzione, e mi sarei tenuta
        la mia menomazione nella speranza (o nell'illusione?) che tagliato via
        un seno avrei azzerato anche i miei impulsi sessuali e affettivi. Anita,
        comunque, è fra tutti i personaggi il più disincantato e positivo: ha
        perso l'illusione di essere immortale ed ha deciso di godersi la vita
        quanto più le è possibile. La capacità di fare bilanci, riadattare i
        fini ai propri mezzi, non rinunciare ai propri interessi, vivere la vita
        consci della presenza della morte, è del resto un dono del cancro -
        l'unico fiore da cogliere e da preservare nella guerra nucleare contro
        questa malattia.
 
 Antonia
        Brancati |