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MANON LESCAUT musiche di Giacomo PUCCINI - dramma lirico in quattro atti 56° stagione Lirica Sperimentale - Teatro NUOVO - Spoleto 2002 |
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Recensione
La
lunga, complessa, tormentata genesi della terza opera di Giacomo Puccini
coincide con la progressiva
presa di coscienza dei fini drammaturgici del compositore e degli
strumenti idonei a perseguirli.
Manon Lescaut è, infatti, unanimamente considerata dalla critica il
primo importante raggiungimento
dell’arte pucciniana.
L’idea
di comporre un’opera tratta dalla Histoire
du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate
Prévost era già nata nella mente di Puccini quando, il 21 aprile 1889,
andò in scena al Teatro
alla Scala Edgar, la sua
seconda partitura. Contro la scelta del romanzo di Prévost parlava l’inevitabile
confronto con l’opera Manon che
Jules Massenet, ai vertici della propria parabola creativa, aveva
scritto nel 1884 per l’Opéra-Comique di Parigi. Puccini ne conosceva
lo spartito per canto e pianoforte,
sebbene essa non fosse ancora stata rappresentata in Italia.
Le
difficoltà della messa a punto del testo poetico costituirono il
maggior impedimento al compimento della
partitura. Ben sette librettisti, infatti, si avvicendarono su Manon
Lescaut. Primo collaboratore del
musicista fu Ruggero Leoncavallo, che Puccini ben presto sollevò
dall’incarico per rivolgersi a Marco
Praga, che chiese di avere al suo fianco come versificatore Domenico
Oliva. Il compositore indicò
chiaramente agli scrittori che desiderava un’impostazione da opéra-comique, dunque dialoghi parlati
e aderenza alla fonte letteraria. Lo schema proposto fu approvato e
nell’estate del 1980 il libretto
era pronto, con piena soddisfazione di tutte le parti. In poche
settimane, però, iniziarono i ripensamenti,
relativi a singole situazioni, ma soprattutto all’impostazione
generale dell’opera, infatti, i recitativi
parlati da opéra-comique apparivano
poco consoni al nuovo disegno del compositore. Puccini fu
così abbandonato prima da Praga e poi da Oliva, stremati dalla sua
incontentabilità. Fu l’intervento di
Luigi Illica e poi di Giuseppe Giacosa (la coppia che darà vita a Bohème,
Tosca, Madama Butterfly) a
rivelarsi definitivo per la messa a punto del testo, con modifiche
sostanziali a numerosi dettagli; ma importante
fu anche il contributo di Giulio Ricordi, sia nella veste di supervisore
che in quella, più inconsueta,
di poeta.
Portata finalmente a termine nell’ottobre 1892, dopo tre anni di gestazione, la partitura ricevette il nome di Manon Lescaut (per distinguerla dalla Manon massenetiana) e fu annunciata, e poi pubblicata, senza il nome degli autori del libretto, nessuno dei quali voleva, comprensibilmente, assumersi responsabilità che non gli competessero interamente. Andata in scena al Regio di Torino il 1° febbraio 1893 (otto giorni prima del debutto del Falstaff alla Scala), Manon Lescaut riscosse un autentico trionfo di pubblico e di critica, quale forse Puccini non avrebbe più incontrato di seguito. Molto spesso il perfezionismo di Puccini, la sua tendenza al ripensamento, il suo anelito al ritocco del dettaglio, sono stati considerati come l’effetto di un’insidiosa nevrosi. Nel caso di Manon Lescaut, tuttavia, il travaglio della genesi e l’insistenza delle modifiche sono stati posti anche in relazione con un giudizio d’incompiutezza dell’opera, giudizio che l’autore avrebbe, in una qual certa misura, condiviso. Confrontata con i risultati di perfetta riuscita teatrale delle successive opere pucciniane, o con la linearità narrativa della Manon di Massenet, Manon Lescaut non a tutti è apparsa perfettamente «a fuoco»; spesso anzi è stata considerata come una giovanile opera di transizione verso risultati più ambiziosi e compiuti. I rilievi più marcati sono stati mossi alla frammentarietà della narrazione, che implica una frattura logica fra ciascuno degli atti e quello successivo. Ciò nonostante per lungo tempo la critica ha stentato a trovare un parere univoco sulle caratteristiche della partitura. Di volta in volta si è considerato quale personaggio predominante quello
di Des Grieux o di Manon; si è accusato di prolissità l’atto conclusivo, che pure dura venti minuti;
si è trovato il linguaggio musicale segnato da ascendenze wagneriane o anche frutto di un «ingegno veramente
italiano»; tradizionalista o innovativo.
Il
carattere eterogeneo e contraddittorio dei rilievi suggerisce come non
sia agevole, né corretto, considerare
l’opera come una «prova generale» solo parzialmente riuscita di Bohème o Tosca, o come una
copia meno felice Manon.
Proprio le circostanze della genesi sono illuminanti sulla problematicità di Manon
Lescaut; dal meticoloso lavoro di correzione del libretto traspare
che Puccini nulla intese lasciare
al caso. In un primo momento egli voleva evitare di «copiare» Massenet,
pur ricalcando il modello
dell’«opera comica»; in seguito la sua concezione prese
effettivamente una strada del tutto autonoma,
quella che indicano le parole «con passione disperata», «drammatica e
travolgente», scritte
dal compositore ai suoi librettisti. D’altra parte la frattura
narrativa fra i diversi atti fu espressamente
richiesta dal compositore; poi, che non si tratti d’ingenuità, è
confermato dalla riflessione
sulla concezione drammaturgica sottesa. Infatti, nello svolgimento
dell’azione, tutti gli altri personaggi
occupano un ruolo subalterno rispetto ai due protagonisti; l’azione è
interamente guidata dagli
incontri e dalle separazioni dei due innamorati, che non sono mai colti
nell’espressione tranquilla ed
idilliaca del loro sentimento: oggetto dell’opera è il «tema
dell’amore inteso come maledizione in sée per sé», come suggerisce
Fedele D’Amico. In questa prospettiva la frattura tra i vari atti
perde importanza,
anzi l’intuizione drammatica di Puccini, che anticipa certa tecnica
narrativa cinematografica,
consistente nel giustapporre situazioni contrapposte e lasciare al
pubblico i «collegamenti»
taciuti, è folgorante per sobrietà ed efficacia.
Insomma,
per Manon Lescaut si deve
parlare di un’impostazione drammaturgica diversa rispetto alle opere
successive, di un’opera specifica. La spiegazione più acuta ed
attendibile di questo stato di cose
è offerta sempre da Fedele D'Amico, secondo il quale essa «esprime,
unica, un momento specifico
dell’opera italiana: quello in cui il mondo verdiano è ormai
sconfessato, e tuttavia l’ideologia piccolo-borghese
non ha trionfato ancora. […] E di questa posizione intermedia sono
specchio il suo stile
e le sue forme musicali, che accolgono in modo molto funzionale elementi
vecchi e nuovi, certe svolte
melodiche di tipo tradizionale accanto ad ambizioni sinfoniche e a
strutture nuove, e influssi di varia
provenienza».
Eterogeneità,
funzionalità: questo è, dunque, il contenuto musicale di Manon Lescaut. Eterogenei sono,
infatti, i diversi influssi che Puccini seppe assimilare e rielaborare
in un proprio materiale musicale.
Certamente
il compositore lucchese risentì dell’onda lunga del wagnerismo,
giunta oltretutto in Italia con
ritardo. Questo risulta evidente, soprattutto nei due ultimi atti, dal
tessuto armonico fortemente cromatico,
dalla densità della scrittura orchestrale, dal flusso libero e continuo
del discorso musicale, ma
anche dall’impiego di motivi conduttori ricorrenti, che tuttavia non
assumono necessariamente una precisa
valenza semantica.
Ma
allo stesso tempo non è da sottovalutare la sua adesione alla
tradizione italiana ottocentesca, filtrata,
più che attraverso Verdi, attraverso Ponchielli. Nonostante la
partitura non sia scandita in numeri
chiusi, continuamente affiorano i ricordi delle vecchie scansioni. Ad
esempio, l’inizio dell’opera richiama
la vecchia «Introduzione» corale
con pertichino (il tenore Edmondo) e con, in posizione centrale,
la «Cavatina» di un cantante (l’arietta di Des Grieux «Fra voi
belle»); o ancora, il concertato del
terzo atto con il passaggio delle prostitute richiama la sezione lenta
dei «grandi» finali d’atto, l’aria di
Des Grieux «No, pazzo son» la cabaletta conclusiva; per tacere del
sapore sentimentale e «melodrammatico»
di quest’ultima come di altre pagine. Alla tradizione sinfonica
appartiene poi la costruzione
interna di molte sezioni, con esposizioni bitematiche, sviluppi, forme
di rondò, ecc.Il quadro
dell’eterogeneità musicale va infine completato con l’alto numero
di pagine precedentemente composte
dall’autore e qui riutilizzate, dalla romanza scritta in
Conservatorio, a un Agnus Dei del 1880, ai
più recenti Crisantemi per quartetto d’archi, tutti autoimprestiti riciclati
con una disinvoltura da definire
“rossiniana”.
In passato la critica volle o seppe vedere di una tale messe di suggestioni, a seconda delle proprie tendenze, solo questo o quell’aspetto: donde la disparità dei giudizi. Comunque Manon Lescaut non risente negativamente dei differenti influssi, anzi, essi sono perfettamente integrati nel disegno drammatico dell’autore, ed è proprio la perfetta coscienza della loro «funzionalità», l’essere ognuno di essi il tassello giusto in un composito collage, che promuove la partitura a grande risultato teatrale. Basti
pensare alla magistrale sintesi del terzo atto, dove le forme musicali
si riallacciano alla tradizione italiana,
la vocalità «sforzata» dei protagonisti riflette le loro lacerazioni
secondo i canoni italianissimi della
«giovane scuola», ma il tessuto armonico «tristaneggiante» è
essenziale per evocare l’atmosfera livida
del porto di Le Havre, i ritorni tematici cercano immediate implicazioni
psicologiche, secondo l’insegnamento
wagneriano. E si pensi ancora a tutti i motivi settecentisti impiegati
nella prima metà dell’atto
secondo per dipingere la vita vuota e formale di Manon, rispetto alla
passionalità melodica del successivo
incontro con Des Grieux.
Manon Lescaut non è comunque un’opera perfetta; non tutti i rilievi mossi dalla critica sono senza fondamento, soprattutto quelli relativi alla riuscita solo parziale dell’atto conclusivo che, nella sua staticità, mostra una certa inadeguatezza rispetto alla mutevolezza degli atti precedenti; e, infatti, col passare degli anni, esso divenne un autentico cruccio per Puccini. La partitura giovanile, però, nondeve essere posta in relazione con la successiva evoluzione dell’autore per dimostrarne la statura. Nel
comporre Manon Lescaut Puccini colse un risultato maturo e consapevole, anche
se la sua poetica seguì
percorsi differenti. E forse non è un caso che, per coloro che non
amano il mondo pucciniano delle
«piccole cose» di tutti i giorni, Manon
Lescaut sia, fra le opere del compositore lucchese, quella prediletta
e amatissima. Arrigo Quattrocchi
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