Atto Primo:
A Parigi, nella lussuosa
casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di
alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi
partecipano i soliti mondani aristocratici,
le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia
nobiltà e moralità. È un tripudio di
chiacchiere, di risate e di musica. Tra i
presenti, per la prima volta e piuttosto a
disagio, c’è il giovane Alfredo Germont: ha
chiesto all’amico Gastone di venire
introdotto, perché da qualche tempo è
segretamente innamorato della padrona di
casa. Costei si è accorta delle attenzioni
del giovane, dei suoi complimenti così per
bene, e vi risponde schernendosi
ironicamente. Gastone propone un brindisi e
invita Alfredo a formularlo («Libiam nei
lieti calici»). Rivolto a tutta la
compagnia, in realtà il brindisi diventa un
duetto di sottintesi tra il giovane e
Violetta: «La vita è nel tripudio» inneggia
lei, «Quando non s’ami ancora» risponde lui.
Intanto nell’attiguo salone si aprono le
danze e tutti vi si dirigono, eccetto
Violetta costretta ad arrestarsi per un
violento colpo di tosse; per assisterla
resta con lei Alfredo. Così rimangono soli e
le profferte del giovane si fanno più
serrate («Un dì felice, eterea»), mentre
dall’altra sala giunge attutito il suono di
un valzer. La donna da parte sua ribadisce
di esser disposta solo all’amicizia. Il
colloquio è interrotto da Gastone, rientrato
a vedere che cosa i due stiano facendo.
Ottenuto un appuntamento per il giorno dopo,
Alfredo se ne va, mentre Violetta rimasta
sola medita, turbata, sulle sue parole
d’amore: forse, pensa, è arrivato anche per
lei il momento di un amore vero e reciproco
(«È strano!...»… «Ah, forse è lui che
l’anima»). Poi, come timorosa di illudersi
troppo, riafferma la sua indipendenza da
ogni legame, la dedizione alla libertà e ai
piaceri dei sensi («Follie!... follie!...
delirio vano è questo!...»…«Sempre libera
degg’io»).
Atto Secondo:
Siamo in una casa di
campagna nei dintorni di Parigi. Entra
Alfredo, depone il fucile da caccia e canta
la sua gioia per i tre mesi sereni trascorsi
finora con l’amata Violetta («Lunge da lei
per me non v’ha diletto!»...«Dei miei
bollenti spiriti»). Ma subito la sua
felicità s’incrina, quando scorge la
domestica Annina rientrare da Parigi e viene
a sapere che è stata mandata dalla signora a
vendere cavalli, cocchi e quant’altro lei
possieda: la coppia sta spendendo troppo, e
d’altra parte lei voleva nascondergli le sue
difficoltà economiche. Resosi conto della
situazione («O mio rimorso, o infamia»),
Alfredo decide di correre in città per
cercare i soldi. Intanto sopraggiunge
Violetta. È tranquilla e felice, apre la
posta che le arriva da Parigi; sorride agli
inviti dei vecchi amici che la reclamano a
feste che a lei ormai non interessano più,
quando le annunciano l’arrivo di un signore.
È il padre di Alfredo, Giorgio Germont.
Costui prima l’accusa di rovinare
economicamente il figlio; poi, quando
Violetta gli mostra, documenti alla mano,
che è lei che si sta rovinando, cambia il
tono recriminatorio in rammarico e le dice
di avere una figlia in procinto di sposarsi
(«Pura siccome un angelo»), ma il futuro
genero ha deciso di lasciarla se Alfredo non
interrompe il vergognoso rapporto. Violetta
cerca un compromesso, come allontanarsi
dall’amato per un po’ di tempo, ma Germont
insiste: dovrà lasciarlo per sempre. La
donna allora esterna tutta la forza del suo
sentimento («Non sapete quale affetto») e
gli dice che preferirebbe morire. Ma il
vecchio ipocrita finisce col convincerla
insinuandole che l’amore è legato alla
bellezza («Un dì, quando le veneri»), che
cede presto alle prime rughe e alla noia. A
questa possibile verità, la donna china il
capo («Dite alla giovane»): farà credere
all’amato di non poter lasciare la vita di
prima. Chiede soltanto una grazia al
genitore («Morrò!... la mia memoria»): che
un giorno Alfredo, quando lei sarà morta,
conosca la verità. Ormai sola, Violetta
comincia a scrivere la lettera che la
condannerà, ma viene interrotta dal rientro
di Alfredo. Egli le chiede che cosa stia
scrivendo e a chi, ma è turbato perché ha
saputo dell’arrivo del padre. Violetta è
sconvolta, parla e piange, poi esplode in un
urlo d’amore («Amami, Alfredo») e corre in
giardino. Poco dopo ad Alfredo viene
recapitata una lettera, quella di Violetta;
la legge e, disperato, si abbandona nelle
braccia del padre rimasto nei pressi.
Germont tenta di convincere il figlio a
tornare a casa («Di Provenza il mar, il suol»).
Ma questi lo respinge, non lo ascolta, pensa
a un probabile rivale (il barone Douphol),
fugge a precipizio per raggiungere la donna
e vendicarsi dell’abbandono.
Siamo ora nel palazzo di Flora, l’amica di
Violetta, nel pieno di una festa in
maschera. Ci sono signore vestite da zingare
(«Noi siamo zingarelle») e signori, tra cui
Gastone, abbigliati da toreri («Di Madride
noi siam mattadori»). E tutti sanno già che
i due amanti rifugiatisi in campagna si sono
separati. Tuttavia l’arrivo alla festa di
Alfredo coglie di sorpresa i presenti. Poco
dopo arriva anche Violetta, al braccio di
Douphol. L’incontro è imbarazzante, la
tensione è estrema. Alfredo vince al gioco
tutti, perfino il suo rivale barone. Viene
annunciata la cena e i convitati si recano
in sala da pranzo. Violetta chiama in
disparte Alfredo, cerca di giustificare il
suo comportamento ma, per non svelare la
trama paterna, è costretta a mentire, a
dichiarare che ama il barone. Infuriato, il
giovane invita tutti gli altri ad ascoltarlo
e alla loro presenza denuncia la donna
(«Ogni suo aver tal femmina»), gettandole ai
piedi con disprezzo una borsa di denari. Per
un gesto così volgare unanime è la
riprovazione («Oh, infamia orribile»), a cui
si unisce quella del padre Germont entrato
appena in tempo per assistere alla scena
(«Di sprezzo degno se stesso rende»). L’atto
termina con un concertato che assomma la
condanna dei convitati alla disperazione di
Violetta e al rimorso di Alfredo.
Atto Terzo:
Siamo ai momenti estremi
della sventurata giovane; la tubercolosi
ormai, come dirà il medico ad Annina, non le
accorda che poche ore. In scena infatti,
accanto a lei, vigila la fedele domestica;
in seguito arriva il dottore, a chiedere
come la malata abbia passato la notte. Fuori
il carnevale impazza, si sentono i canti e
le danze. Violetta si consola leggendo e
rileggendo la lettera ricevuta da Germont,
che la informa del duello tra il barone e
suo figlio, in cui il primo è rimasto ferito
ma lievemente; inoltre le scrive che Alfredo
sa ora la verità sul suo sacrificio e che
dall’estero sta tornando precipitosamente da
lei. E lei aspetta tra speranza, timore e la
consapevolezza che ormai è troppo tardi
(«Addio del passato»). Torna Annina in
grande agitazione, e non fa a tempo ad
annunciarle l’arrivo dell’amante che lui
entra e l’abbraccia. Alla commozione e alla
gioia segue un duetto di illuso ottimismo
(«Parigi, o cara»).Violetta vorrebbe alzarsi
e partire subito, ma le forze la tradiscono
e ricade sul canapè («Gran Dio!... morir sì
giovane»), tra il dolore e la costernazione
di Alfredo. Sopraggiunge anche Germont,
pieno di rimorsi. «Oimè, tardi giungeste!»
gli mormora l’infelice. Poi Violetta lascia
nelle mani dell’amato un suo ritratto dei
tempi migliori («Prendi, quest’è
l’immagine»). Per un attimo sembra
riprendersi; invece muore tra le braccia dei
suoi cari.