Barbara
Mindel raccorda elementi reiterati in opere monumentali, si avvale di
simboliche stereometrie, di oggetti allegorici, di forme retoriche
visive, costruisce strutture, che potrebbero essere con assoluta
perentorietà scenografie teatrali, e le ricopre di stoffa, svuota le
uova e le ridipinge conferendo loro i connotati di entità estetiche
create per un nuovo esistere, mesce acqua nei cristalli in un rituale
rigido, quasi di ancestrale riscoperta del proprio genere femminile,
innalza pareti domestiche trapunte di figure antropomorfe, progetta
cubature abitative intese come luogo dell’anima e della memoria. In
tutto ciò riannoda le tracce narrative che sono passaggi nodali
dell’esistere e dagli intrecci frammentari decodifica la fabula
al fine di redigere il senso ultimo del vivere e del fare arte.
La
forza della sua produzione risiede nel conoscere e nel saper dominare il
lieve discrimine tra il rigoroso disegno e la padronanza dei materiali.
In questa fase della sua attività raggiunge un più maturo equilibrio
tra le due componenti; non rinnega esiti esteticamente accattivanti, ma
li usa al servizio del concetto, della regola, dell’ordine.
L’elemento liquido primigenio, che rampolla nella Falda
acquifera, riaffiora in fonti squadrate, in volumi tridimensionali e
compatti. E’ trattenuto in involucri vetrosi quasi a contraddire il
flusso che dovrebbe caratterizzarlo, ma è anch’esso emblema
sacralizzato, memoriale. La falda si distende fitta di incasellamenti,
specchiante ma attraversabile, controcanto trasparente rispetto ai
pannelli gorgoglianti di stoffa delle altre opere; è una sorgente dove
l’acqua è ferma e cristallizzata in teche trasparenti, in sotto unità.
E’ un’ossimorica creazione intellettuale dove flusso e tempo, che
dello scorrere è universale convenzione, sembrano soggiacere ad una
frammentarietà diacronica che vuole essere immagine della totalità,
del principio estenuato nella fine da cui si genera un nuovo inizio.
Un
ordine ritmico e numerico corrispondente informa anche il progetto
tracciato per
chiamare alla luce le altre opere. Ovum
è tabula legis, matrice, decalogo. E’ iconografia dell’origine,
dell’ancestrale consacrazione dell’uomo all’entità non conosciuta
che tutto conosce. Reagisce alla luce incidente come superficie
dinamica, chiaroscurata e pittorica, dove la convessità delle uova si
affianca in sottordine a quella schiumante del tessuto posto in aggetto
regolare come parabola visiva della fecondità. Allo stesso tempo
l’opera avanza e recide i legami con la bidimensione, invade lo spazio
reale e lo ridisegna così come avviene per il Rombo,
gigantesco e babelico oltraggio verso il cielo. Appeso al muro per
essere affidato ad uno stato di quiete sembra invece stagliarsi solenne
verso l’alto, ascendere come testa vettoriale, lucido e riflettente
ben saldo nel suo baricentro. Anche in questo caso è frutto della
modulazione, della sommatoria di parti da intendersi come episodi di una
cronologia: è dunque un’altra icona del tempo, geometrico ouroboros.
Lo specchio qui perde qualsiasi valenza ornamentale; non più solo
estetica porta che spinge l’osservatore ad entrare nell’opera,
diventa vertice di forza, pietra angolare rovesciata, accelerazione del
moto, lucido arco teso nell’atto di scagliare.
Nella
Domus il tema dei rimandi e delle corrispondenze costituisce le
fondamenta ideali dell’edificio, ambiguo nella commistione di certezze
che, da vere e verosimili, diventano forse solo immaginate. E’ luogo
della memoria, è chiave che apre, grimaldello che forza e ci fa
sprofondare in noi stessi con una caduta ovattata, come le sue mura, ma
inesorabile: compenetrazione e riverbero di junghiana memoria tra veglia
cosciente e sogno.
Le
pareti di stoffa, che prendono la forma umana di seriali e anonimi
abitanti, si riflettono negli specchi; le uova e le scatole d’acqua si
decuplicano negli specchi; la casa stessa, traslucida apparizione, è
amplificata dagli specchi. Ci invita ad entrare, umida alcova,
accogliente focolare ma, sospesa a mezz’aria e scardinata dalla sua
stessa base, che è uno specchio, è anche luogo della catabasi (pozzo,
voragine, perdizione) e dell’anabasi ( forse scala di Giacobbe,
viatico, epifania del logos).