E' stato
Cesare Vivaldi a scrivere nel'79, alcune
considerazioni tra le più appropriate che potessero
essere suscitate dalla attenta osservazione
dell'opera lunga e coerente di Toni Arch.
Di
fatto, mettendo in evidenza una affermazione di
Guido Montana percui ad Arch intereresserebbero lo
spazio, la struttura e non la ridondanza visiva,
aggiungeva una correzione nel senso della avvertita
necessità espressiva dell'artista centrando così il
cuore del problema. Che era quello di sottrarre alla
originaria matrice neo-costruttivista ogni
asseragliamento nell'astratto fine a se stesso.
Vivaldi,
di fatto, nella dinamica interna del quadro e nel
ritmo evidente della modulazione plastica scopriva,
manifesto, il legame fra la associazione strutturale
e la associazione metaforica.
E a
ragione perché stando di fronte ai quadri di Arch
vengono naturali domande e risposte. Cosa mai è il
suo segno se non la metafora di una immagine aperta
al senso fra flagranza e astanza? Quale il suo
significato iterativo lucido e trasparente se non la
traccia di un ritmo quasi musicale (che non sarebbe
certo spiaciuto a Kandinsky) in cui il crescendo
suggerisce la graduazione del farsi della forma nel
sistema di interrelazione spaziale ? Quale rapporto
nella dinamica interna del quadro se non la analogia
comportamentale dell'esistenziale ?
Ecco, in
apparenza un tutto qui che però si rivela, poi
essenziale alla contemplazione laddove attiva una
intensificazione del sensibile fenomenico, laddove
avvia l'occhio ad un modo nuovo del vedere il
percettibile e di avvertirlo come emozione
depositata in una infusione atmosferica, in una
sospensione di transiti, di balenii, di palpiti. Il
che è come parlare di una epifania emblematica di un
modo in farsi con la sua vitalità, i suoi momenti di
scorrimento, di aggressività, di quiete affidati al
muto disporsi di tasselli, di tinte tenui, di colori
trasparenti in un delicato equilibrio.
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